L’Italia produce la metà dell’olio necessario al consumo interno e, in un decennio, hanno chiuso i battenti più di 200.000 piccole aziende olivicole italiane così che il divario con Francia, Germania e Spagna è diventato abissale soprattutto come conseguenza dei tagli ad ogni sostegno, del disinteresse da parte di tutte le parti politiche, dei provvedimenti dell’UE che accordano percentuali anche inferiori al 10% per qualificare un “olio d’oliva italiano”, oltre alla deroga sull’obbligo dell’indicazione della data di imbottigliamento e del limite dei 18 mesi specificabili facoltativamente dai produttori.
La problematica occupazionale del settore agricolo in Italia vede la presenza di un solo agricoltore di età inferiore a 35 anni su 10 agricoltori over 65, quando in Francia per 10 agricoltori sopra i 65 anni ce ne sono 10,1 sotto i 35 e in Francia, per gli stessi 10 agricoltori, ce ne sono 9,9 sotto i 35.
La Spagna, con una produzione varietale di scarsa qualità ma quantitativamente importante, detiene il controllo dei mercati, anche del Nord Africa, Marocco ed Algeria.
Il sistema di raccolta delle olive spagnole ,però, è completamente diverso da quello italiano: gli spagnoli ammassano le olive in loco e solo dopo aver terminato la raccolta le portano al frantoio dove, ad alte temperature, i chimici aggiungono additivi chimici, e spesso aggiungono anche altri oli, per mascherare l’odore, il sapore e il colore dell’olio scadente di partenza e dargli la stessa consistenza e colorazione dell’olio evo al 100% italiano e bio che si presenta denso e verde.
Gli olivicoltori italiani sanno bene che far attendere le olive qualche giorno in più dopo la raccolta in attesa della spremitura significa ritrovarsi con olive pre-fermentate e quindi irrancidite, con un potenziale di tossine che favorisce il cancro al colon e all’apparato digestivo e, in più, completamente prive di tutte le proprietà nutrizionali.
Uno studio finanziato da Coop, compiuto dal Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università di Bologna sotto la direzione di Giovanni Lercker, ha rivelato che ben il 70% dei campioni di olio extra vergine nella fascia di prezzo compresa tra € 2,5 e € 4 in vendita nei supermercati sono stati sofisticati, cioè sono oli nocivi alla salute, pieni di radicali liberi che favoriscono l’invecchiamento da stress ossidativo e danni al DNA. Si sottolinea che nel dopoguerra l’olio rancido veniva somministrato ai maiali perché provoca ipotiroidismo (ostacola nel fegato la conversione dell’ormone tiroideo da T4 in T3 necessario per creare gli enzimi che convertono i grassi in energia) e, di conseguenza, ingrassavano velocemente consumando meno cibo.
Persino le maggiori aziende italiane produttrici di olio di oliva acquistano da Spagna, Tunisia e altri paesi esteri olio di oliva rancido a basso prezzo che poi stemperano con l’olio di oliva italiano per renderlo vendibile.
Per ovviare a questo giro di sofisticazioni si dovrebbe ripristinare il sussidio agli olivicoltori per ogni litro d’olio che esce dal frantoio (il costo di molitura) così che si possano garantire dati precisi per quanto riguarda la produzione italiana; mentre allo stato attuale tutto è affidato alle attestazioni degli addetti ai frantoi che, conclusa a prima spremitura a 28°, potranno riprendere le sanse lasciate dagli olivicoltori, sottoporle ad una nuova estrazione intorno ai 60° vendendole a costi superiori.
COME DIFENDERSI
L’ideale è acquistare l’olio da frantoi locali o produttori di fiducia dato che le alterazioni e l’identificazione del titolo in acido oleico si accertano con costose analisi attraverso saponificazione, idrolisi acida, estrazione dell’acido oleico, rotazione, mediante Mercurio, cis/trans del doppio legame e trasformazione in acido elaidinico (solido) con pesata finale.
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Ecco altri approfondimenti sull’olio extravergine di oliva:
Dott.ssa Agr. Brigida Spataro
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